NONNITA’, GENITORI BIS? SÌ, MA A MODO NOSTRO
Se “gli amici dei miei amici sono miei amici”, allora i figli dei miei figli sono miei figli. Ho quattro nipoti e li chiamo “figli miei”. Lo so, non sta bene, devo smetterla. Me lo dico sempre. Ma il fatto è che non è facile. È più forte di me. Questo “sentirmi loro padre” è un sentimento istintivo e irrazionale che ha molto lavorato nel mio cervello, fino a costruire un sistema: tutti noi nonni ci sentiamo padri dei nostri nipoti, e alcuni di noi cercano di suscitare nei nipoti un affetto più grande di quello che li lega ai loro genitori, nostri figli. Questi nostri figli ci hanno tradito. Se ne sono andati dalla nostra casa. Una signora che abita di fronte a me, quando il figlio si sposò e se ne andò, stava davanti alla porta di casa e piagnucolava: «Ho perduto mio figlio, l’ho perduto!». Non era morto, s’era soltanto sposato. Ma per lei non c’era differenza. Sbagliava. Il figlio che ci dà dei nipoti, ci dà una seconda paternità. Una riedizione, rivista e corretta, della prima. Nella prima abbiamo commesso degli errori. Adesso li conosciamo. Nella nonnità, nostra seconda paternità, non li commettiamo più. Per esempio, i figli li abbiamo rimproverati, quando bisognava. E li abbiamo puniti, quando non si poteva fare a meno. Adesso sappiamo che ottieni molto di più non-rimproverandoli e non-punendoli. La nipotina maggiore un giorno mi fece uno sgarbo, mi tolse dalle mani un libro e lo buttò via. Mi parve una villania, e le dissi: «Meriti tre sculaccioni e te li do», li contai a voce alta, «uno, due, tre», ma mi bloccai con la mano in alto, non la sfiorai nemmeno, e lei baldanzosa commentò: «Non mi hai fatto male, perché mi vuoi bene». Se volevo acquistare autorità, l’autorità del burbero, l’avevo completamente perduta. Meglio così. Lei, strappandomi il libro, aveva protestato perché prestavo attenzione al libro e non a lei. Una ferita al suo amor proprio.
I nipotini “ci vivono addosso”. Qualunque cosa facciamo, per loro è un esempio. Tutto quello che pensano o che vogliono, lo confessano candidamente. Questa nipotina veniva con me quando tenevo delle conferenze. Si sedeva tra il pubblico. Aveva due abitudini, una dolcissima e una fastidiosa. Sarei contento se gliele avessi tolte tutt’e due, anche quella dolcissima. La quale è questa: quando gli ascoltatori venivano da me, al tavolo, a farsi dedicare qualche copia di qualche mio libro (io purtroppo scrivo libri), la bambina si metteva alle mie spalle e mi dava dei colpetti sul gomito destro come se la dedica la scrivesse lei. Mi fa paura, quando fa così. Vuole fare la scrittrice? Una volta i figli avevano come modello i padri, adesso ci sono nipoti che hanno come modello i nonni, perché passano più tempo con i nonni che con i padri. Questa nipotina vuole scrivere? Ma lo sa quante delusioni, quante incomprensioni, a partire da quelle del tuo editore, che mente, tu vuoi la “gloria” lui vuole i “soldi”, e se tu soffri perché non ti arriva la prima, lui piange perché non gli arrivano i secondi? L’altra abitudine è più grave, anche socialmente. Se nella conferenza facevo una battuta, gli ascoltatori ridevano. La nipotina, mescolata tra di loro, si alzava in piedi e con la manina m’indicava qualcuno, ripetutamente. Finito l’incontro, le chiedevo: «Figlia mia (m’è sfuggito anche stavolta, non so cosa farci), cosa m’in- dicavi con la mano?», e lei: «T’indicavo quello che non applaudiva». «Ma figlia mia (è un viziaccio, lo deve smettere), chi m’ascolta ha diritto di non pensarla come me, siamo in democrazia». E lei: «Non mi piace la democrazia». Ahi!, cosa le piace, alla nipotina? Il mondo come dittatura? E il nonno come dittatore? Quando leggo i giornali, al mattino, seduto sulla poltrona, e lei mi sta dritta in piedi a fianco, lavoro molto a farle notare i titoli sui dittatori, e i disastri e le porcherie che combinano. Credo di esserci riuscito. Adesso ha un senso sociale più acuto del mio. Un giorno le dico: «Figlia mia (mi vergogno, se uno mi dà una multa ogni volta che la chiamo “figlia”, in un anno diventa ricco), vuoi che giochiamo a carte?». Un urlo di gioia. Ci sediamo. Le do le carte. Si gioca per non più di due minuti. Poi butta via le carte e si alza. «Perché?», «È un modo stupido di passare il tempo, senza fare del bene. Ho paura di fare un dispiacere al Signore (erano i giorni in cui si preparava alla Prima Comunione). Poi mi vengono i rimorsi». Chiede: «Tu non hai dei rimorsi?». Non so cosa le ho risposto, lì per lì. Non era facile. Oggi, col senno del poi, la risposta migliore sarebbe questa: «Sì, ho dei rimorsi, e ben più gravi dei tuoi, figlia mia». (Però, lo giuro, col vizio di chiamarla “figlia” la smetto qui).
Questa è la prima nipotina. Di nipoti ne ho quattro. Moltiplicate per quattro questo racconto e avrete la mia nonnità.
di Ferdinando Camon